Capitolo VII

L’America! E’ over’ o nun’è over’?

 

Nel 1978, il mio sogno di andare negli Stati Uniti si avverò. C’era stato un accordo tra l’allora primo ministro italiano, on. Giulio Andreotti, e il presidente degli Stati Uniti d’America, Jimmy Carter, per una serie di scambi culturali tra insegnanti italiani e insegnanti americani. Per sfruttare al meglio questa occasione che veniva offerta, il ministero della pubblica istruzione organizzò un corso per formatori che poi, al rientro in Italia, avrebbero a loro volta tenuto corsi di aggiornamento agli insegnanti italiani in quello che venne chiamato “Progetto Speciale Lingue Straniere”. Responsabile dell’organizzazione era il prof. Raffaele Sanzo, distaccato al Ministero della Pubblica Istruzione, oggi ispettore.

Furono perciò scelti 35 insegnanti italiani, attraverso colloqui e valutando l’esperienza di aggiornatori che avevano già maturato. Tra i 35 fummo scelti anche io e Sirio Di Giuliomaria per l’esperienza maturata, ci dissero in seguito, in sette anni di studio e aggiornamento nel LEND.

Questo seminario fer formatori si tenne presso la San Francisco State University, USA, dal 7 luglio al 18 agosto 1978, nell’ambito del programma Fulbright-Hays e durò 6 settimane.

All’inizio il direttore del corso, prof. John Davies, ci illustrò il programma che prevedeva ore di lezione dalle 10 del mattino alle 5 del pomeriggio, con un’ora di pausa per il pasto delle ore tredici e poi, successivamente, altre varie ore di studio e di ricerca in biblioteca. Praticamente non era previsto nulla che riguardasse il contatto dal vivo con la lingua e la cultura americana, campi di maggior interesse per tutti noi.

I partecipanti furono d’accordo nel convincere il professor Davies a nominare una commissione che avrebbe preparato un programma più adatto ai nostri interessi. La commissione era formata da due professori italiani e da due americani. Per la parte italiana furono nominati Anna Flamini e Mario Papa. Per la parte americana altri due insegnanti di cui non ricordo il nome. Ricordo solo che dopo due giorni di discussioni Anna ed io riuscimmo a fare accettare il nostro programma, che avevamo preventivamente concordato con gli altri 33 colleghi, per evitare poi discussioni tra di noi. Sostanzialmente il programma americano dalle 10 alle 17 rimaneva invariato. Dopo, però, ognuno si organizzava come meglio credeva. Inoltre erano previsti vari gruppi di studio, escursioni anche a pagamento in vari posti di interesse non lontano da San Francisco ed, infine, i cosìdetti Homestay, cioè soggiorni di alcune ore o di un giorno o di un weekend presso famiglie americane che avevano interesse ad incontrare italiani con i quali scambiare informazioni di tipo culturale.

Un altro problema che si presentò all’inizio fu la formazione dei gruppi. Dopo una giornata di svariate discussioni, anche molto animate, tra i 35 partecipanti, tra lo stupore degli americani che non riuscivano a capire perché ci si dovesse accapigliare tanto per formare 8 gruppi di 4 o 5 persone, riuscimmo finalmente a formare i gruppi. Io e Sirio formammo 2 gruppi e decidemmo di lavorare insieme a due progetti. Con noi partecipavano amici molto preparati: Maria Grazia Dandini, Maria Cirelli, Patrizia Carta, Umberto Milazzo, Ninni Alagna, Sirio, io, e una collega, mi pare si chiamasse Vespucci, che non fu mai presente alle nostre riunioni, ma alla fine approvò tutto il nostro lavoro! Era una di quelle venute a San Francisco in vacanza!

Alla fine del corso producemmo due bei progetti che illustrammo ai colleghi americani e a quelli italiani, ripresi tra l’altro, dalle telecamere.

Quando eravamo un po’ liberi andavamo downtown, cioè in centro, e ci vestivamo a strati, ovvero “a scorz ’e cipolla”. Questo perché sulla collina dove era ubicata la State University e, quindi, dove alloggiavamo noi, c’era spesso un nuvolone e faceva freddo. Man mano, invece, che si scendeva a San Francisco, cominciava a far caldo ed era necessario togliersi gli indumenti pesanti.

Il mio compagno di camera era Sirio. Avevamo una bella camera ampia, con una finestra larga quanto la parete, dalla quale, seppur con una tenda, la mattina passava la luce appena faceva giorno. Io non ho dormito mai troppo a lungo in vita mia e per non disturbare Sirio stavo zitto e non mi alzavo da letto finchè non vedevo lui che cominciava a muoversi, magari solo girandosi per controllare l’ora.

“Ciao, Sirio. Buon giorno.”

“Ao, ma va a morì ammazzato! Nun te puoi muovere un attimo che te becca subito. Ma che ora è?”

“Sono le 6.”

“Le 6? Ma pecchè nu’ dormi ‘n’altro poco.”

“Non ci riesco. Sono già sveglio da tanto.”

“Va bè. Ho capito. Buon giorno. E mo che famo a quest’ora?”

“Potremmo andare a correre un po’ nel campo sportivo.”

Avevamo a nostra disposizione un campo per l’atletica leggera, vari campi di tennis, piscina e non so cos’altro per eventuali attività di ginnastica.

Le camere, però, non avevano il bagno. C’era un lungo corridoio. Da un lato si succedevano le nostre camere, ampie e sempre ospitanti due persone, e dall’altro lato c’erano i bagni. Anche i bagni erano molto larghi e con tutti i servizi necessari per accogliere quattro persone. Infatti ogni bagno era destinato agli occupanti di due camere ed era chiuso a chiave. In ogni camera c’era una chiave. La chiave del bagno relativo alla nostra camera era sempre sul mio comodino che si trovava vicino alla porta, quindi, in una posizione strategica per far fronte ad eventi improvvisi e non procrastinabili. Ogni mattina Sirio, sistematicamente, si alzava, dimenticava di prendere la chiave del bagno, apriva la porta della nostra camera, attraversava il corridoio, tentava di entrare nel bagno, trovava la porta chiusa, ritornava indietro a prendere la chiave imprecando. Una mattina, verso la fine del nostro soggiorno americano, disse:

“A Mario, ‘sta storia d’a chiave è diventata come i riflessi condizionati de’ Pavlov.”

“Cioè, non ho capito. Che vuoi dire?”

“Che mò che torno a Roma, si ‘nun ci’ho ‘a chiave ‘nun me scappa de cacà!”

Altra esperienza indimenticabile fu la homestay. Una signora, presidentessa di un club di americani interessati ad incontrare stranieri, mi contattò e mi diede una serie di indirizzi e di numeri telefonici di persone che erano interessati ad incontrarci il weekend successivo. Per ogni indirizzo era indicato anche il numero di persone gradite, una o due. La mattina, prima dell’inizio delle lezioni, dissi a tutti i colleghi e colleghe cosa avremmo dovuto fare ma si pose subito il problema di come distribuirci tra i nostri vari ospiti. Fu deciso di preparare 35 bigliettini con i nostri nomi e di tirare a sorte gli abbinamenti con gli indirizzi. Sembra incredibile ma Sirio ed io fummo estratti per andare allo stesso indirizzo! Il pomeriggio del sabato, dopo aver telefonato alla signora che si dimostrò subito gentile e lieta di ospitarci per la cena, discutemmo un po’ cosa poter portare alla signora in omaggio. Sirio era per una bottiglia di vino ed io propendevo più per un fascio di fiori. Decidemmo di portare tutte e due gli omaggi. Alle 17.30, orario della cena all’università, Sirio mi suggerì di non mangiare, visto che eravamo stati invitati a cena. Pertanto seguii il suo consiglio, ci vestimmo di tutto punto e prendemmo il tram per andare al nostro indirizzo che era molto lontano dall’università. Una volta in centro, Sirio comprò una bottiglia di vino californiano ed io cercai un fioraio. Dopo un po’ trovammo il fioraio. Decisi di acquistare delle rose e mi aspettavo che il fioraio mi preparasse un bouquet come si usa fare in Italia, con del verde intorno, della carta trasparente, un nastro che finisce in fiocco e tutto quanto necessario per rendere il fascio di rose bello ed elegante. Invece il fioraio americano prese le rose, le avvolse in un foglio di giornale e me le porse. Cogliendo nei miei occhi un certo stupore, pensava che non mi fossero piaciute le rose. Era una tipica situazione in cui l’impatto di culture diverse crea disagio e, a volte, incomprensioni.

Ad ogni modo, Sirio con la sua bottiglia ed io con la rose avvolte nel giornale arrivammo all’indirizzo che ci era toccato in sorte. Aprì la porta una signora di circa 75 anni con una gonna lunga contraddistinta da uno spacco che lasciava intravedere gran parte della coscia sinistra! Sul divano sedeva con le gambe accavallate un’altra signora su per giù della stessa età. Furono fatte le presentazioni e, dopo un drink, iniziò la cena.

“Maronn’, Sirio”, dissi in napoletano, per non trasmettere le mie vere impressioni anche alle gentili signore, “ ‘e vecchie chissà che tenen’ a’ mente ‘e fa! E mò, comm’ facimm’?”

“Ah Mario, nun te preoccupà”, rispose Sirio in romanesco, “ora magnamo, che ci’avemo fame, poi salutamo e ce n’annamo.”

“E nun pare brutt’?”

“Ma che pare brutto! Intanto mostriamoci gentili, magnamo, e poi diciamo che domani ce dovemo alzà presto e ce n’annamo, no?”

“Va buò. Magnamm’ ca teng’ ‘na famm’ ‘e pazze. Nun magn’ d’aiere ssera.”

“E mo te rifai. I ‘mericani so famosi per la loro ospitalità. Vedrai che ‘a signora ce fa magnà un sacco de cose bbone.”

“Speramm’ ‘a Maronna. Uì lloco, Sirio. Sta arrivann’ ‘a signora c’u primm’ piatto.”

“Oh! Thank you! It smells good! What is it?” (Oh. Grazie. Ha un buon odore. Cos’è?)

“Chicken. Do you like it?” (Pollo. Vi piace?)

Il pollo era buono. Il problema era però costituito dal fatto che nel piatto c’era solo un piccolo, direi quasi minuscolo, pezzo di pollo. Un po’ d’insalata per contorno ed, infine, una mela per frutta.

“Sirio, e chest’ è ll’ospitalità americana? A faccia ‘ro caciocavallo! E nun me fatt’ manco magnà all’università. Mo i’ teng’ ‘na famm’.”

“Nun te preoccupà, mo salutiamo e annamo a magnà al ristorante.”

E così facemmo.

La domenica sera, all’università, ci scambiammo con tutti gli altri collghi le impressioni sull’esperienza fatta. Ci furono racconti esilaranti ed esperienze molto interessanti. Un nostro amico era capitato presso un ricco italo-americano che aveva il bagno dipinto in bianco, rosso e verde. Altri avevano conosciuto persone simpatiche e brillanti. Certo, anche gli americani non sono dei robot e, come del resto tutti i popoli, hanno tra di loro una larga varietà di personaggi.

Il sabato successivo Patrizia Carta mi invitò ad andare con lei dalla signora il cui indirizzo le era toccato in sorte la prima volta e che l’aveva invitata un’altra volta per il prossimo fine settimana. Accettai per fare compagnia a Patrizia che, mi disse, si annoiava ad andare da sola, ed ero pronto ad ogni contrarietà. Quando chiesi a Patrizia con quale mezzo saremmo andati, mi rispose di non preoccuparmi e di farmi trovare alle ore 17 nella entrata principale dell’università. Alle ore 17 in punto, con mio grande stupore, arrivò una Buick con relativo chauffer con berretto, il quale ci fece accomodare e ci condusse a Sauselito, dall’altro lato del Golden Bridge, in un quartiere ricco ed elegante. La signora che ci aprì la porta era una bella signora di circa 50 anni, vestita in modo sobrio ed elegante, senza gonna con spacchi. Ci preparò una cena ottima, con una buonissima tipica bistecca. Poi ci indicò un pianoforte, mi invitò a suonare un po’, cantammo, ci divertimmo e passammo una magnifica serata.

“Spero ti sia rifatto della prima esperienza. Mi era dispiaciuto molto quello che ti era capitato, dopo la fatica di aver organizzato tutti gli incontri, ” disse Patrizia. Le fui grato per la serata e per aver evitato che facessi generalizzazioni avventate sugli americani.

Prima che finisse il corso avevo già deciso, d’accordo con Sirio, di prenderci quindici giorni di vacanza, visto che ci trovavamo negli Stati Uniti, e girare un po’ negli stati dell’ovest. Già durante il nostro soggiorno presso l’Università di San Francisco avemmo occasione di effettuare diverse escursioni durante i fine settimana. Alcune escursioni erano organizzate direttamente dall’università. In altri casi ci organizzavamo in gruppi, prendevamo in fitto una macchina e andavamo in giro. Tra le escursioni organizzate dall’università ricordo una gita di tre giorni a Yosemite National Park, uno dei parchi americani più belli e più grandi. Rimanemmo tre giorni ed avemmo modo di visitare straordinarie bellezze naturali. Prima di partire, Sirio era preoccupato per il fatto che avremmo soggiornato in tende nel parco nazionale e avremmo potuto aver bisogno di cibo. Decise quindi di acquistare, tra l’altro, un intero casco di banane. Poiché le banane emanavano un forte odore, non potevamo tenerle in tenda e le appendemmo, quindi, fuori dalla nostra tenda. Gli amici, vedendo tutte quelle banane e pensando forse che eravamo stufi di mangiarle, ne prendevano una ogni volta che passavano. Alla fine, per noi erano rimaste solo tre o quattro banane!

Un’altra gita molto interessante fu quella fatta a Sequoia National Park e a Muir Woods. Avemmo modo di vedere da vicino le sequoia, alberi dal tronco di colore rosso scuro (infatti in americano si chiamano redwoods), altissimi e dalla base enorme. Alla base di uno degli alberi c’era un foro così grande che vi passavano le auto. A Muir Woods, invece, visitammo la foresta pietrificata.

In un’altra occasione andammo a visitare Monterey e Carmel, due bellissime cittadine sulla costa a sud di San Francisco. Scoprimmo, tra l’altro, che all’epoca, sindaco di Carmel era il famoso attore e regista americano Clint Eastwood. Non ricordo bene se nella stessa occasione o durante un altro fine settimana andammo a visitare Napa Valley, un’area della California famosa per la produzione del vino. Infatti in quella zona la temperatura è mite, simile a quella mediterranea. Diversi italiani, nel passato, una volta emigrati, si erano stabiliti in California e qui avevano piantato la vite, che trovando condizioni climatiche adeguate, aveva subito attecchito, producendo un buon vino. Oggi, soprattutto il vino bianco della California compete con i migliori vini bianchi del mondo. Nel giro di Napa Valley ci fermammo a visitare la tenuta vinicola “Mondavi”, un celebre marchio americano. La famiglia Mondavi era di origine italiana e produceva vino oramai da diverse generazioni. Più tardi, ad allietare il pomeriggio, arrivò il quartetto di David Brubeck, celebre jazzista, di cui avemmo modo di apprezzare suono e ritmica.

In altre occasioni prendemmo in affitto un’automobile per un giorno o due e andammo scorazzando per i dintorni. Andammo a Sauselito, bello e ricco paesino al di là del Golden Gate Bridge. Un’altra volta facemmo gran parte della Route 49, una strada famosa che ricordava la corsa all’oro in California del 1849. Visitammo Angel’s Camp, dove pare che era stata trovata la prima pepita d’oro, la famosa golden nugget, poi facemmo un giro in diligenza e fummo assaliti da banditi finti con tanto di fazzoletto sul volto e pistolone in pugno!

Prima che finisse il corso di formazione, io e Sirio avevamo fatto un programma preciso del giro che volevamo fare. Ne parlammo con alcuni amici e trovammo subito le adesioni di Maria Cirelli, che sarebbe poi diventata la moglie di Sirio, Maria Grazia Dandini, Umberto Milazzo e la moglie Clara, che lo aveva raggiunto a San Francisco durante gli ultimi giorni del corso. Il giro che avevamo preparato sembrava molto interessante e ci avrebbe portato a visitare molti punti famosi del lontano ovest, il famoso far west, almeno per i lettori dei giornalini a fumetti come Tex Willer. Sirio, che ogni tanto era assalito da ansie colossali, peggio di me, decise che doveva prenotare le camere per tutti noi in ogni città dove avevamo deciso di pernottare. E decise di prenotare presso la catena delle Holiday Inns. Poiché in America si fa tutto al telefono, un giorno si mise a telefonare a varie agenzie per prenotare le camere per tutti noi. Nel rituale della prenotazione è inevitabile che la signorina chieda di fare lo spelling del proprio cognome, cioè dirlo lettera per lettera onde evitare errori o confusioni. Si può immaginare cosa accadeva quando Sirio cominciava a fare lo spelling del proprio cognome: D-I-G-I-U-L-I-O-M-A-R-I-A!

“What? Can you repeat please?”

“D-I-G-I-U..”

“One moment, please. D-I-G-I-U.. Right?”

“Va bè, ho capito. Ma và a morì ammazzata. Mo me stò a stufà. A signorina, listen, I give you another name: PI EI PI EI.” Sarebbe la pronuncia del mio cognome: Papa! Così Sirio prenotò non so quanti alberghi a mio nome in tutti gli stati dell’ovest. Il fatto curioso fu che, a parte la prima notte a Los Angeles, d’accordo con tutti gli altri amici, decidemmo di andare sempre a dormire in altri posti molto meno cari degli Holiday Inns.

Il nostro giro iniziò da Los Angeles, dove arrivammo in aereo da San Francisco. Avevamo con noi solo pochi bagagli perché avevamo provveduto a spedire il grosso dei bagagli insieme ai libri con corriere da San Francisco direttamente in Italia. Avevamo anche prenotato, sempre per telefono e sempre a nome PI EI PI EI, oramai tutte le prenotazioni si facevano così, anche un macchinone che avremmo preso all’aeroporto di Los Angeles. Appena arrivammo, io e Sirio andammo all’ufficio dell’AVIS per ritirare la macchina. Ci accorgemmo, però, che la macchina non era sufficientemente grande per ospitare tutti noi: eravamo in sei. Al telefono eravamo stati molto chiari nel richiedere una macchina lunga circa otto metri. Alle nostre osservazioni la signorina cercava di convincerci che anche una macchina di 6 metri avrebbe contenuto con comodità sei persone. Ma io e Sirio non ne volevamo sapere di accettare altra auto se non quella prenotata. La signorina cercava disperatamente sul computer, cominciava a sudare, la fila si allungava e Sirio continuava imperterrito.

“Is it eight metres long?”

“Well, it’s six metres 50 centimetres long. Is it ockey?”

“No, we are six people and we are going to travel for fifteen days. We want to be comfortable. That’s why we booked our car in advance.”

Insomma, dopo circa mezz’ora di ricerche e di discussioni, fortunatamente la signorina trovò il tipo di auto che volevamo. Mi diede la chiave e i documenti. Andammo al parcheggio e trovammo un macchinone giallo oro di circa otto metri, una Plymouth Salon, pieni di aggeggi automatici mai visti prima! A cominciare dai vetri elettrici. Tutti entusiasti salimmo a bordo. Guidavo io. Facemmo un giro di Los Angeles, andammo in albergo, poi, di pomeriggio andammo subito a Disneyland. Lì passammo molte ore di gran divertimento. Provammo praticamente tutti i giochi e gli ottovolanti, visitammo tutti i posti di interesse, e solo verso le due di notte, alla chiusura del parco divertimenti, fummo costretti ad uscire. Il giorno dopo andammo a visitare Hollywood, dove ti danno la piantina con tutte le ville degli attori e delle attrici famosi. Il giorno dopo, alternandoci alla guida io e Umberto Milazzo, partimmo per il Nevada. Attraversaamo il deserto dipinto (Painted Desert) e la valle della morte (Death Valley) e la sera, tra uno sfolgorio di luci mai visto prima, arrivammo a Las Vegas. Ricordo che durante gli ultimi chilometri, a qualcuno di noi è venuto improvvisamente il desiderio di andare in bagno. Ironia della sorte, proprio in quel momento abbiamo letto la pubblicità di una pillola contro la diarrea che diceva: “Against diarrhoea, take the X pill! Remember. The last mile is the longest!” (Contro la diarrea, prendi la pillola X: Ricordati! L’ultimo miglio è il più lungo!) Fortunatamente anche senza quella pillola miracolosa riuscimmo ad arrivare in albergo. La sera stessa passammo il tempo a girare per la famosa Strip, così si chiama la strada centrale di Las Vegas piena di casinò. Visitammo diversi casinò ed in uno di questi io e Maria Cirelli, giocando con le macchinette, vincemmo circa 300 dollari. Quando scattò la vincita, una macchina fotografica mi fece anche una foto dove urlo di felicità per aver vinto quella modesta somma. All’epoca, comunque, con trecento dollari pagammo l’albergo per tutti e cenammo anche qualcosa. Non male! Da Las Vegas procedemmo per Lake Maed, al confine con l’Arizona e poi per Flagstaff, nel cuore dell’Arizona, dove pernottammo. Il mattino successivo andammo a visitare il Grand Canyon del Colorado. Fu una visita stupenda. Con un elicottero, facemmo un giro del canyon e il pilota ci spiegava luoghi, formazione e caratteristiche delle rocce e il resto del paesaggio veramente mozzafiato. Il giorno dopo eravamo diretti verso una riserva di indiani Navajo. Ad un certo punto, mentre ero alla guida della nostra auto, vidi che c’era un sentiero che ci avrebbe fatto risparmiare una quarantina di chilometri. Sirio e Umberto non erano molto d’accordo a lasciare la strada nazionale. Ma io insistetti ed alla fine prendemmo questa scorciatoia. Sfortunatamente si alzò un forte vento, la sabbia si accumulava sempre di più e, ad un certo munto, la macchina si bloccò nella sabbia e non ne volle sapere di ripartire. Le ruote giravano a vuoto e affondavano sempre di più nella sabbia. Eravamo preoccupati, ma tutti mostrarono sangue freddo. Decidemmo di dividerci in tre gruppi. Un gruppo formato da Sirio e Maria si incamminò a piedi verso un villaggio indiano che secondo la carta stradale non distava più di dieci chilometri. Altri due amici, Umberto e Clara andarono in cerca di assi di legno da poter mettere sotto le ruote della macchina. Io, assistito da Maria Grazia, scavavo in continuazione con le mani la sabbia dalla macchina per evitare che la stessa venisse rapidamente ricoperta.

C’erano circa 50 gradi con un vento caldissimo che ricopriva di sabbia i capelli, il corpo e i polmoni. Dopo un po’, Umberto e Clara tornarono con delle assi, però non riuscimmo a trovare un crick per sollevare la macchina. Eravamo quasi disperati quando, dopo circa quattro ore, scorgemmo un camion che veniva verso di noi. Sul camion c’erano Siro e Maria che avevano trovato un indiano che guidava il camion. L’indiano non parlava inglese, solo la propria lingua, ma aveva capito perfettamente che Sirio e Maria cercavano aiuto. Così l’indiano prese il grosso crick del suo camion e sollevò la nostra auto, noi mettemmo le assi di legno trovate da Umberto e Clara sotto le ruote, poi Umberto con grande abilità riuscì, con gran sollievo di tutti, a tirar fuori la macchina dalla sabbia. Il più sollevato di tutti ero io che avevo procurato il guaio. Pertanto diedi da parte mia 20 dollari di mancia all’indiano, ringraziandolo per il suo aiuto, ma gli altri amici non vollero che fossi il solo a pagare. Dissero che dovevo prendere la somma dalla cassa comune. La cosa che apprezzai di più in quel frangente fu la grande serenità, certamente derivata dall’esperienza, di tutti i miei amici i quali non mi mossero alcun rimprovero. Eppure ne avevano ben d’onde!

Andammo poi a visitare Monument Valley, il parco nazionale tenuto dai Navajo, dove sono stati girati famosi film western come Ombre Rosse. Una sera dormimmo a Cameron, in pieno territorio Navajo, poi visitammo il Lake Page ai confini con lo Utah. Facemmo il bagno nel lago, poi proseguimmo per lo Utah, poi il Colorado e raggiungemmo Four Corners, unico punto negli Stati Uniti dove si incrociano quattro stati, l’Arizona, lo Utah, il Colorado e il New Mexico. Di li proseguimmo per Albuquerque nel New Mexico. Ad Albuquerque visitammo l’antico quartiere messicano, mangiammo in un ristorante messicano e ci godemmo un po’ del bel sole. Lasciammo la Plymouth Salon all’AVIS di Albuquerque ed, in aereo, ci recammo a New York, via Chicago. Ci fermammo tre o quattro giorni a New York, e il primo impatto con questa città non fu per me molto positivo. Andammo nei soliti posti dove vanno i turisti ed ebbi l’impressione di una città sporca, piena di mendicanti, con locali puzzolenti. Ben altra impressione avrei poi ricevuto in seguito.