Capitolo XII

Communication Tasks va negli Stati Uniti

Borsa di studio Fullbright

 

Il lavoro era stato impegnativo e stressante. Pertanto Giuliano ed io decidemmo di prenderci un periodo di “separazione consensuale” e lavorare un po’ singolarmente. Progettai un corso per le scuole superiori. Questo corso sarebbe poi stato pubblicato dalla Zanichelli nel 1986 con il titolo Skills and Meanings. Durante la fase di progettazione fui invitato dall’Ufficio studi dell’Ambasciata americana ad un colloquio. Rimasi stupito dell’invito e andai a Roma dove fui ricevuto da Ellen Matthews e da altre persone. Mi chiesero se continuavo a lavorare nel campo dell’editoria scolastica e si congraturarono con me del successo di A Song-Book e di Communication Tasks. Mi dissero che avevano apprezzato molto la nostra iniziativa di dare risalto alla lingua e alla cultura americana e mi chiesero se intendevo continuare sulla stessa linea. Dissi loro che il corso per le superiori che stavo progettando aveva sempre un personaggio principale americano. Mi chiesero di vedere il progetto. Dopo alcuni giorni inviai il progetto all’ambasciata. Nel progetto erano elencati anche gli argomenti di cultura americana che avrei trattato nel corso di inglese. Ad esempio, le grandi fattorie americane, le condizioni dei pellerossa, la musica, il lavoro, lo sport, la famiglia, ecc.

Mi fu assegnata una borsa di studio “Fullbright” che prevedeva un soggiorno di sei settimane negli Stati Uniti. Fu una esperienza straordinaria. Innanzi tutto il mio viaggio era stato organizzato dagli uffici dell’Ambasciata americana nei minimi dettagli: alberghi, aerei, posti da visitare, guide, persone da incontrare e quant’altro fosse necessario alla riuscita del mio soggiorno di studio. Partii da Roma per Washington dove incontrai il direttore del centro studi americani. Nella capitale degli Stati Uniti d’America mi trattenni circa una settimana sia per contattare persone e istituzioni, sia per visitare diverse case editrici che mi volevano conoscere. Poi andai a Philadelphia, città storica, Orlando, dove visitai Disneyworld e Cape Canaveral.

Visitai New Orleans, la patria del jazz. All’arrivo all’aeroporto di New Orleans trovai una brutta sorpresa. Il mio bagaglio non era stato imbarcato sullo stesso aereo. Mi assicurarono che il bagaglio mi sarebbe stato consegnato in albergo entro la mattina successiva. Presi un taxi e andai in albergo. Mi feci una doccia e subito dopo ricevetti una telefonata. Era un certo Joe Maselli, presidente della comunità degli italo-americani di New Orleans che, venuto a conoscenza del mio arrivo dall’ufficio di Washington, mi invitava ad un party. Gli dissi che non avevo ricevuto il bagaglio e, quindi, non avevo un abito decente; solo la maglietta e il paio di jeans che avevo addosso. Inoltre era domenica e i negozi erano chiusi. Il mio interlocutore mi disse di non preoccuparmi, mi chiese che taglia portavo e mi diede appuntamento entro mezz’ora nella hall dell’albergo. Disse che mi avrebbe portato un suo vestito. Dopo mezz’ora un macchinone enorme si fermò all’ingresso dell’albergo e ne discese un ometto piccolo e grassottello. Mi si avvicinò tutto affabile e si presentò:”Joe Maselli. Nice to meet you.” Aveva con sè un vistoso abito da sera che però non era assolutamente adatto a me perchè di almeno quattro taglie più piccolo della mia taglia 54. Lo ringraziai e cercai di rifiutare l’invito. Fu impossibile. Joe disse che si trattava di un party tra amici e nessuno avrebbe badato al mio abbigliamento un po’ troppo “casual”. Entrai in macchina, mi presentò sua moglie, mi raccontò che era stato in un paese dell’avellinese dopo il terremoto del 1980 a portare una somma di danaro raccolta tra gli italo-americani di New Orleans che sarebbe servita a ricostruire la chiesa del paese. Arrivammo ad una villa di tipo hollywoodiano. C’erano almeno cento invitati tutti in abiti eleganti. Quando Joe mi presentò al padrone di casa, un celebre chirurgo italiano fratello di un dirigente del Banco di Napoli, mi sentii molto in imbarazzo per il mio abbigliamento. Ma il peggio doveva ancora venire. Ad un certo punto il padrone di casa annunciò ad un microfono che era presente alla festa un ospite d’onore particolarmente importante, autore di vari testi, ecc. e, facendo il mio nome, mi invitò a salutare gli ospiti presenti. Credo che quello sia stato uno dei momenti più imbarazzanti della mia vita. Certo i presenti rimasero un po’ sorpresi nel vedere questo personaggio in un abbigliamento assolutamente inadatto alla serata. Andai al microfono con la mia magliettina e i jeans un po’ sporchi, salutai il pubblico e, con una serie di battute, raccontai quello che mi era successo all’aeroporto. Chi sa cosa dissi, certo è che tutti cominciarono a ridere e a complimentarsi con me. Da quel momento la serata passò in modo allegro e rilassante. Quando verso mezzanotte Joe Maselli mi riaccompagnò in albergo, trovai fortunatamente il bagaglio che mi aspettava in camera.

Un altro pomeriggio divertente lo passai con un responsabile dell’ambasciata americana. Questa persona sapeva che mi piaceva il jazz. Infatti gli dissi che ero già stato alla “Presenvation Hall”, un locale famosissimo dove dei vecchi jazzisti suonano pezzi classici. Avevo già girato abbastanza per Bourbon Street, la strada piena di locali dove il jazz la fa da padrone. Questo signore mi accompagnò in un club. Entrammo, mi presentò a certi suoi amici, ci sedemmo ad un tavolo e venne la signorina del bar per prendere le ordinazioni. Lessi la lista e, tra le varie bibite, trovai per la prima volta la “margarita”. Chiesi cosa fosse e dissi che avevo due gemelle delle quali, una appunto, si chiamava Margherita mentre l’altra si chiamava Roberta. Il drink era composto da tequila e limone. Volli provarlo. Ad un certo punto qualcuno si mise a suonare il piano e subito dopo un altro signore cominciò ad accompagnare il pianista con il contrabasso. Poi si unì ai due una terza persona con un sassofono. Era iniziata una “jam session” di jazz in cui vari musicisti non professionisti si esibivano in pezzi che conoscevano. Ad un certo punto il mio anfitrione si alzò, ando al microfono e annunciò che c’era un batterista italiano he amava il jazz e che avrebbe accompagnato il terzetto. Fece il mio nome che fu accolto da applausi. Anche qui provai un certo imbarazzo. Dissi che ero un modesto dilettante, non all’altezza dei musicisti che si stavano esibendo. Ma proprio loro mi dissero che non potevano esibirsi senza batteria. Mi chiesero quali pezzi conoscevo e iniziammo a suonare. Seguivo con attenzione il pianista che era molto bravo e mi segnalava benissimo il tempo e le pause. Cercavo di portare il tempo senza strafare. Insomma ruppi il ghiaccio e la gente sembrava divertirsi. Mentre ero in piena esibizione musicale la signorina del bar si avvicinò con un vassoio sul quale c’era un altro drink di colore verde-arancio e mi disse: “Mario, this is a “Roberta”! Aveva creato un drink col nome dell’altra mia figlia e me lo stava offrendo! La serata andò avanti per circa quattro ore. Mi divertii molto perché man mano che passava il tempo acquistavo sempre maggiore confidenza con lo strumento e con gli altri amici.

Ma il momento più emozionante doveva ancora arrivare. Un giorno Joe Maselli mi chiamò al telefono e mi disse che ero convocato al City Hall (Municipio) di New Orleans insieme ad alcuni personaggi italo-americani perché eravamo attesi dal vicesindaco. Andammo a questo appuntamento al quale partecipavano numerose altre persone e, ad un certo punto, il vicesindaco cominciò a parlare dei meriti degli italo-americani e di come io in particolare avessi contribuito con i miei libri a far conoscere la cultura americana in Italia e in Europa. Insomma venni ritenuto un italiano in qualche modo meritevole e, quindi, un rappresentante del consiglio cittadino mi chiamò su un palco e mi diede una pergamena in cui si leggeva che mi era stata conferita la cittadinanza onoraria di New Orleans! Con orgoglio conservo la pergamena nel mio studio.

Dopo New Orleans andai ad Oklaoma City. In Oklaoma vissi quattro giorni in una riserva indiana per constatare da vicino le condizioni in cui vivevano i pellerosse.

Poi andai a Terra Haute in Indiana, dove sono stato 5 giorni in una fattoria. Lì ho studiato da vicino l’organizzazione delle fattorie, le coltivazioni, gli allevamenti enormi. Andai poi a Chicago, una città bellissima sulle rive del lago Michigan. In questa città sarei poi ritornato nel 1996 insieme a mio cognato Ettore, in occasione del convegno internazionale del TESOL. Da Chicago andai a Boston e questa fu una tappa memorabile.

Infatti a Boston fui ricevuto da alcuni dirigenti e redattori della casa editrice Addison-Wesley, all’epoca tra le più prestigiose degli Stati Uniti. In seguito la Addison-Wesley si sarebbe fusa con la casa edirice inglese Longman entrando a far parte del gruppo editoriale Person.

L’incontro alla Addison-Wesley fu molto cordiale ed io ebbi modo, tra le altre cose, di illustrare il corso di inglese Communication Tasks che Giuliano ed io avevamo pubblicato un anno prima e che stava riscuotendo un bel successo in Italia. Credo di aver presentato il corso mettendo bene in risalto tutti i risvolti non solo linguistici ma anche psicologici sui quali era basato. Inoltre devo averlo presentato con tanto fervore ed entusiasmo che, alla fine, i responsabili della casa editrice presenti alla riunione, Bob Naiva, il direttore generale, Judy Bittingher, direttrice editoriale, Ann Strunk, capo redattore, e Talbot Hamlin, simpatico redattore anziano, si mostrarono molto interessati ad una eventuale edizione del nostro corso per il mercato americano e sud americano. Mi chiesero copia del libro, dicendomi che lo avrebbero esaminato in dettaglio per vedere se c’era la possibilità di adattarlo al loro mercato come corso per insegnare inglese, come seconda lingua, negli Stati Uniti e come lingua straniera nei paesi latino-americani. Si può immaginare la mia gioia, solo per il fatto di aver sollevato il loro interesse!

Dopo Boston, dove mi trattenni alcuni giorni, andai a New York e qui, a differenza di quanto accaduto la prima volta nel 1978, accompagnato da persone del governo americano che conoscevano bene la città ebbi modo di apprezzarla e di cominciare a capire i motivi della sua fama mondiale. Dopo New York, tornai in Italia, ricco di una esperienza straordinaria che avrei poi trasmesso inevitabilmente nei miei libri.

Tornato dal viaggio negli Stati Uniti ripresi il mio lavoro di insegnante. All’epoca insegnavo all’Istituto Magistrale “Alfano I”. Ripresi anche i corsi del Progetto Speciale Lingue Straniere, e continuai a lavorare al corso per le scuole superiori. 

Nell’autunno del 1983 ricevetti la notizia dal dottore Enriques che la Addison-Wesley era interessata ad un’edizione americana di Communication Tasks

“Giulià, t’ha telefonato Enriques?”

“No, pecchè? Che vò?”

“Allora nun sai ‘a nutizia?”

“Qua’ nutizia?”

“Maronna, ‘na cosa grande, veramente importante!”

“E che po’ essere? Aspett’ ‘nu mument’. Nun è ca ‘i ‘merican’ hanno accettato Communication Tasks?

“E’ proprio accussì! E’ capito?”

Dopo una serie di scambi di lettere tra il dottor Enriques, col quale ora ci davamo il tu e chiamavamo amichevolmente Federico, Bob Naiva, il direttore della Addison-Wesley, e noi stessi, fu deciso che saremmo andati di persona in America per discutere nei dettagli tutto il lavoro da affrontare.

Con un entusiasmo che ci spingeva ad affrontare gli ostacoli più duri e difficili, nel dicembre del 1983 andammo a Boston. Eravamo felici, emozionati, lusingati dalla proposta che ci era stata fatta. Si pensi che fino a quel momento le case editrici italiane solevano di tanto in tanto adattare al nostro sistema scolastico corsi scritti in Gran Bretagna e qualche volta negli Stati Uniti. Mai si era verificato il contrario. Come disse, poi, un giorno Franco Iantorno, il fratello di Giuliano, era stato come vendere dei frigoriferi agli esquimesi!

Ecco cosa si poteva leggere nel n. 14 del settimanale “L’Espresso”, 6 aprile 1984, pagina 135:

Effetto «Azzurra» per l'editoria scolastica 

“Un corso di inglese per principianti, di due autori italiani, pubblicato da Zanichelli (Communication Tasks), sarà adattato da un editore americano, Addison-Wesley, per tutte le scuole dei mondo. L'importante contratto (si prevedono più di cinque milioni di copie) è stato firmato a metà febbraio. Sulla scia di «Azzurra» un altro successo del «made in Italy» negli Stati Uniti: il libro è stato scelto fra altri non solo per i testi ma anche per il design, curato da Sergio Salaroli e per le illustrazioni di Giancarlo Montelli. Addison-Wesley è un editore di Reading (Mass.) di medie dimensioni, con una produzione assai diversificata (dai testi scientifici di premi Nobel come Luria, Watson e Segrè ai libri di analisi transazionale). Non è questo il primo libro di Mario Papa e Giuliano Iantorno pubblicato anche all'estero. L'inglese Longman pubblicò qualche anno fa un loro libro-cassetta di canzoni folk (Iantomo ha un passato di chitarrista).

Mario Papa reduce da un incontro di lavoro con lo staff di Addison-Wesley ci ha detto: «E' interessante osservare lo stile di lavoro degli americani: sono molto attenti alle questioni di costume ed evitano stereotipi di tipo razzista o sessista. Nel nostro libro un ragazzo va alla stazione per incontrare la cugina di un'amica: quando si accorge che è brutta, ci rimane male. Questo episodio dovrà essere cambiato, perchè ispirato ad una inconscia visione maschilista. La professionalità degli editori americani ed inglesi è assai elevata, forse gli inglesi fanno pesare di più il fatto di essere «native speakers».

La trattativa con gli americani è stata assai rapida, ci dicono alla Zanichelli: la cosa più difficile è stato far capire loro che gli autori erano due, e che «Papa» non era un appellativo di Iantorno.”

Tra il dicembre 1983 e il marzo 1986, anno di pubblicazione del nostro corso negli Stati Uniti col titolo Turning Points, Giuliano ed io andammo molte volte e Reading, una cittadina vicino Boston, dove era ubicata la sede della Addison-Wesley. Durante quei viaggi e quei soggiorni si verificarono eventi vari che ora cercherò di raccontare seguendo i ricordi che ne ho conservato.

Quando arrivavamo negli Stati Uniti la direzione della Addison-Wesley ci ospitava solitamente in uno dei loro appartamenti situato in un residence distante circa due chilometri dalla sede della casa editrice. L’appartamento era dotato di ogni conforto, incluso un ottimo sistema di riscaldamento e di aria condizionata. L’aria calda, o fredda, a secondo della temperatura esterna, veniva erogata da bocchettoni che avevano uscite nelle varie stanze, poco sopra i battiscopa del pavimento. Tra l’altro, per facilitare i nostri spostamenti da un posto all’altro, soprattutto dall’appartamento alla sede della casa editrice, ci veniva anche data un’automobile di proprietà della stessa casa editrice. Una mattina, appena svegliati, ci siamo accorti che c’era neve dappertutto. Accendendo il televisore, abbiamo appurato dal telegiornale che a Boston la temperatura era scesa a –25° (venticinque gradi sottozero!).

Dopo poco ci chiamò Bob Naiva, il direttore, dicendoci che quella mattina non avremmo potuto uscire di casa perché le strade erano bloccate dalla neve, come pure il portone dell’edificio in cui era ubicato l’appartamento dove alloggiavamo. Ma non avremmo dovuto spaventarci perché l’appartamento era dotato di un ampio e fornito frigorifero e di tutto quello di cui avremmo avuto bisogno. La neve, se il tempo fosse migliorato, sarebbe stata spalata in giornata e tutto si sarebbe sistemato. Eccitati da una situazione per noi assolutamente nuova, ci siamo messi a cercare innanzi tutto il frigorifero. In pratica sembrava la porta di una stanza, tanto era grande, perciò non l’avevamo trovato subito. Nel frigorifero c’era ogni ben di Dio! Cibo e bevande per una decina di persone per circa dieci giorni! Giuliano scongelò subito due grosse bistecche americane, T-bone, cioè quelle con l’osso in mezzo a forma di T, con carne a destra e a sinistra. Poi, all’ora di pranzo, le arrostì su una graticola che era nel forno. Erano buonissime. Passavamo il tempo a sentire i vari telegiornali per capire come si evolveva il tempo, o leggendo, o discutendo del nostro lavoro, sempre con gusto, simpaticamente, e divertendoci molto per delle piccole, apparenti scemenze. Questa è stata una caratteristica costante del lavoro che per circa trent’anni Giuliano ed io abbiamo fatto insieme. Abbiamo sempre lavorato in un clima di reciproca stima, comprensione e, soprattutto, cogliendo sempre gli aspetti comici e divertenti che di tanto in tanto si presentavano.

Il pomeriggio, entrando nel salone, vidi Giuliano disteso per terra con la testa rivolta verso uno dei bocchettoni dell’aria calda.

 

“Giuliano, ma che, si’ pazz’? Che stai facenn’?”

“Mi sto asciugando i capelli.”

“Comm’? Te stai asciugando i capelli?”

“E’! Nun aggio truvato ‘o fono e me l’asciugo accussì.”

“E nun te fa male?”

“Ma no. Chest’ è aria calda. E’ comme ‘o fono.”

“Gesù, guarda ‘nu poco chist’ che s’è ‘nventato pe s’asciugà ‘e capill’!”

“Si te lave ‘e capille, t’e può asciugà accussì pure tu.”

“Ma tu si pazz’! Ma comme te vene ‘ncap’ ‘e te lavà ‘e capille iust’ oggi ca ce stanne vinticinq’ grade sottozero!”

“Che c’entra. So vinticinq gradi for ‘a porta, ma ccà dinte so ventuno gradi. Fa ‘nu cavere!”

 

E questo è Giuliano!

 

Una sera gli amici della Addison-Wesley ci avevano dato un appuntamento alle 8.30 in un ristorante al centro di Boston. Il ristorante si chiamava “Legal Seafood” (Frutti di mare legali) e, insieme a “Oyster House” (La casa dell’Ostrica), uno dei più antichi, era considerato il più famoso ristorante di Boston per i piatti di pesce.

Verso le 7.30 uscimmo di casa perché il posto era abbastanza lontano, a Chinatown, e ci voleva circa un’ora per raggiungerlo.

 

“Mario, famme guidà ‘nu poco ‘sta macchina americana.”

“Prego. Come mai? In genere fai guidà a me.”

“Me voglio levà ‘nu poco ‘u sfizio ‘e guidà na macchina senza frizione.”

“Ah, certo che è ‘na comodità.”

“Hai visto? Ce stà pure il pilota automatico. Chist’ regola la velocità.”

“E come funziona?”

“E’ semplice. Dobbiamo andare a 50 miglia all’ora? Allora, ecco, si tira un po’ fino a che raggiungiamo le 50 miglia. Ecco fatto.”

“Maronna mia! Certo che ‘sti macchine americane so ‘nata cosa!”

“Mo, devo solo tenere lo sterzo, niente frizione e niente acceleratore.”

“Si, ma statte attient’ pecchè tra quattro uscite c’è la nostra: Chinatown.”

“Nun te preoccupà. Quarda che autostrada! Sei corsie per ogni senso di marcia!”

“Giulià, hai letto? Tra tre uscite c’è Chinatown. E’ meglio ca stai a destra.”

“Ma nun te preoccupà! Ce vonno ancora tre uscite.”

“Giulià, mo Chinatown è tra due uscite.”

“Aggio capito. Guarda i grattacieli comme so belli!”

“Giulià, a prossima uscita è Chinatown. Miettete a destra.”

“Sine. U’ quanto si scucciant’. Ma che te crire ca so fesso?”

“Questo mai! Mi preoccupa la distrazione.”

“Ma quanno mai!”

“Giulià! U sapevo! Aimmo passato Chinatown!”

“Overo? Va bè, mo ascimmo ‘a prossima e turnamm’ arret’.”

La prossima uscita era a circa dieci chilometri, oltre il fiume Charles, a Cambridge, praticamente un’altra cittadina. Uscimmo, dopo varie peripezie rientrammo sull’autostrada e finalmente imbroccammo l’uscita di Chinatown. Poi ci mettemmo in cera del ristorante. Arrivammo praticamente alle 10 di sera. Non c’era più nessuno! Mangiammo qualcosa e poi ritornammo a casa pensando a cosa avremmo potuto dire ai nostri anfitrioni per giustificare la nostra assenza alla cena organizzata appositamente per noi!

 

Un sabato pomeriggio decidemmo di andare a visitare Harvard, sede della famosa università. Harvard è un paesino non lontano da Boston. La sera eravamo stati invitati a cena da Ann Strunk, la nostra redattrice. Prendemmo, quindi la nostra bella macchinona americana fornitaci dalla Addison-Wesley e partimmo per Harvard. Arrivati nell’area dove pensavo si trovasse Harvard, chiesi ad un uomo: “Is this Harvard?”, cercando di pronunciare il nome della cittadina nel migliore dei modi. L’uomo mi rispose: “ What? Never heard of it before!” (Cosa? Mai sentito prima!)

“Giulià, ma chist’ è scemo! Harvard! The place of the famous university!”

“Ah! Harvard!”, pronunciato senza il suono delle “r” e in un modo che solo lui ci riusciva.

“Eh! E’ capito, mo, si? Yes, Harvard! E io c’aggi’ ritt’”

“This is the place!” (Questo è il posto!)

 

Giuliano se la rideva durante la mia breve discussione col signore un pò snob a cui mi ero rivolto. L’uomo era un tipico esempio di wasp, come vengono chiamati gli abitanti di quell’area geografica, notoriamente gente con la puzza sotto il naso. Wasp è l’acronimo di “white, anglo-saxon, protestant”, e cioè “bianco, anglosassone e protestante”.

 

Trovata finalmente la cittadina, ci mettemmo in cerca di un parcheggio. Era un bel pomeriggio di sole, le strade erano affollattissime e i parcheggi tutti pieni. Ad un certo punto Giuliano vide un posto al lato della strada.

 

“Mario, parcheggia qui. Vedi c’è un bel posto.”

“Giuliano, ma c’è doppia linea gialla a terra. Io so che con la doppia linea gialla è assolutamente vietato parcheggiare.”

“Ma no, questo divieto non è valido nei giorni festivi. Il sabato in America è festivo, perciò puoi parcheggiare.”

“Giulià, ma tu si proprio sicuro?”

“Ma certamente! E fidati una volta.”

Pargheggiammo la macchina e andammo in giro per la città. Acquistammo un paio di bottiglie di vino da portare ad Ann la sera. Dopo un paio d’ore, eravamo un po’ stanchi e decidemmo di tornare alla macchina. Ritornammo sui nostri passi, arrivammo al posto dove pensavo di aver lasciato la macchina, ma la macchina non c’era.

 

“Giuliano, u’ maronn! Se so arrubbato ‘a macchina!”

“Ma che dici? Non l’avevamo parcheggiata qui, ma alla strada successiva.”

“Giuliano, ma io ricordo benissimo. L’avevamo parcheggiata proprio qui.”

“Ti dico che ti sbagli. Andiamo alla strada suuccessiva e vedrai che la troviamo.”

Andammo alla strada successiva. In America le strade generalmente si susseguono parallele o si intersecano perpendicolarmente ed hanno un numero, quindi in effetti non è sempre facile individuare la strada che si cerca a meno che non ne si annota il numero. Della nostra macchina nemmeno l’ombra. Giuliano insisteva nel dire che certamente era una di quelle e, proseguendo avremmo trovato la nostra auto. Dopo aver superato cinque o sei strade, arrivammo al fiume Charles. Strade, quindi, non ce n’erano più!

“Giulià, ti dico che la macchina stava nella prima strada dove siamo andati a cercarla. Se non c’è vuol dire che l’hanno rubata.”

“Tu dici?”

“Eh, io dico. Se è così, comme facimm’ cu ‘a Addison-Wesley?”

“Ma chill’ so assicurate.”

“Si, ma vuò mette, che figur’ ca facimm’!”

 

Ritornammo sui nostri passi e, guardando meglio, scoprimmo che sul muro adiacente il marciapiedi dove avevamo parcheggiato la nostra macchina era scritto con lettere grosse quanto l’altezza delle finestre. Tow Zone, che significa “zona di rimozione immediata”! C’era anche il numero di telefono a cui rivolgersi nel caso, appunto, la macchina fosse stata rimossa. Telefonai subito e chiesi se avevano notizia della nostra macchina. Naturalmente la prima cosa che mi chiese la voce dall’altro capo del telefono fu il numero di targa. Purtroppo né io né Giuliano lo ricordavamo! Avevamo fatto l’errore di non annotarlo da qualche parte. Né ricordavamo la marca, tra le tante che circolano negli Stati Uniti! Cercai di descrivere al meglio la macchina, indicando almeno il colore e qualche altro particolare. Poi mi ricordai delle bottiglie di vino, e dissi che sul sedile posteriore c’erano due bottiglie di vino rosso. L’uomo mi disse di aspettare, andò a controllare e dopo un po’ ritornò e mi disse che la macchina era lì perché era stata, appunto, rimossa. A questa notizia mi tranquillizzai un po’. Ora si presentava il problema di come andarla a riprendere. Era un posto lontanissimo e l’uomo mi consigliò di prendere il taxi. Così prendemmo il taxi, arrivammo in questo posto sperduto, pagammo circa cento dollari di taxi, altri cento e più di multa e carro attrezzi e, finalmente, rientrammo in possesso dell’automobile!

 

In altra occasione Giuliano dimenticò in un ristorante vicino Boston una bella sciarpa rossa appena regalatagli dalla moglie Rosanna. Si accorse solo il giorno dopo di non avere la sciarpa e fu molto contrariato da questo fatto. Infatti eravamo in partenza per l’Italia e la sciarpa non era più recuperabile. Giuliano però telefonò a Bob Naiva, il direttore editoriale, lo salutò e gli parlò della sua preziosa sciarpa rossa. Partimmo per l’Italia e, dopo più di un mese, Giuliano riuscì a rientrare in possesso della sciarpa! Bob Naiva aveva telefonato al ristorante e raccontato a qualcuno del personale della sciarpa di Giuliano. La sciarpa era stata trovata. In qualche modo Bob l’aveva recuperata e la teneva con sé in ufficio. Dopo qualche tempo il dottor Federico Enriques andò negli Stati Uniti, incontrò Bob Naiva il quale gli consegnò la sciarpa di Giuliano. Federico portò la sciarpa a Bologna. Dopo alcuni giorni andai a Bologna per un incontro alla Zanichelli, Federico mi diede la sciarpa che portai con me a Salerno e consegnai a Giuliano. Era riuscito a rientrare in possesso della sciarpa senza muovere un dito e coinvolgendo tante persone!

 

Una sera di inverno, con tanta neve, eravamo stati invitati da alcuni amici americani che abitavano fuori Boston. Partimmo con la famosa auto messa a disposizione dalla casa editrice e andammo in cerca del posto dove abitavano questi amici. Ma la zona era abbastanza buia, la neve alta e non era facile rintracciare il posto. Dopo aver girato a vuoto per un po’ di tempo nell’area dove ritenevamo dovessero abitare i nostri amici, vidi una luce in una casetta un po’ distante dalla strada. Dissi a Giuliano di fermare la macchina perché sarei andato a chiedere informazioni. Mi incamminai nella neve, raggiunsi la casetta e una gentile signora anziana mi aprì la porta. Le dissi che non riuscivo a trovare un certo indirizzo e lei mi invitò a sedermi col marito. Stavano cenando. Disse di non preoccuparmi perchè avrebbe risolto il problema. Si fece dare il numero di telefono dei miei amici, telefonò, parlai anche io con loro e capii che eravamo veramente vicino: un paio di chilometri. La signora e il marito mi fecero una copia della piantina della zona da una carta che avevano. Poi insistettero affinchè prendessi qualcosa da mangiare. Spiegai loro che c’era un amico in macchina che mi aspettava, che stavamo andando a cena da amici e che eravamo già in ritardo. Ma non ci fu niente da fare. Dovetti accettare almeno un dolce e una tazza di caffè! Poi salutai, ringraziai e andai via. Giuliano, intanto, non vedendomi comparire, aveva cominciato a pensare che forse ero caduto in una buca nella neve ed ero scomparso da qualche parte. Perciò era molto preoccupato e non sapeva cosa fare nel buio e nella neve. Quando mi vide emise un sospiro di sollievo. Arrivammo a casa dei nostri amici e passammo una bella serata. Il problema con gli americani è che bevono molti alcolici prima di mangiare. C’era anche un pianoforte. Giuliano iniziò a suonare un po’ mentre venivano offerti i drinks. Si trattava di “gin and tonic”. Io ne bevvi un paio mentre Giuliano saggiamente li rifiutò. Poi cenammo, bevemmo dell’ottimo vino, io e gli amici americani mentre Giuliano si trattenne perché pensò giustamente al problema del ritorno. Negli Stati Uniti già allora chi veniva sorpreso alla guida di un’auto dopo aver bevuto un paio di bicchieri di “gin and tonic” veniva immediatamente fermato, multato, privato della patente e forse arrestato. Io me ne ero completamente dimenticato. Fortunatamente Giuliano aveva provveduto a non bere, così al ritorno guidava lui ed eravamo sicuri. Sicuri di non avere multe per eccesso di alcohol, ma non sicuri di arrivare! Partimmo tardi dai nostri amici, verso l’una di notte. Diciamo che senza sbagliare strada entro un’ora avremmo dovuto essere a casa. Io ero mezzo addormentato accanto a Giuliano, con qualche cenno di ubriacatura. Ad un certo punto, però, mi resi conto che erano le tre e mezza di notte e non eravamo ancora arrivati a casa.

“Giulià, ma tu si sicur’ ca è pigliata a via giusta?”

“Certo. Statte zitto tu, ca si ‘mbriac’”

“E comme mai ancora nun simm’ arrivate?”

“Ma pecchè è luntano. T’è scurdat’ quann ciaimm’ mise a ghì là? ”

“E che centra? A ghì aimm’ sbagliat’ strada. Perciò ci’aimm mis’ tant’”

“Nun te preoccupà, mo vir’ c’arrivamm.”

“Giulià, ma Boston stà int’u’ Massachusetts?”

“E certo.”

“E allora pecchè m’è purtato ‘nt’u New Hampshire?”

“Ma che dice? Ma qua’ New Hampshire?”

“Io aggio visto ‘o cartiell’. Steve scritt’ New Hampshire.”

“Ma addò l’he vist’?”

“Mò, mò. L’aimm’ appena passato. Si tuorne addret’ t’ho facci’ verè.”

Così Giuliano fece marcia indietro e leggemmo il cartello “New Hampshire”. Mi aveva portato in un altro stato! Arrivammo a casa verso le cinque del mattino!

 

Quando Giuliano ed io andavamo in America, partivamo da Roma direttamente. Pertanto andavamo a Roma in auto il pomeriggio che precedeva la partenza, pernottavamo in un albergo romano e la mattina successiva prendevamo l’aereo per New York. Andavamo a Roma sempre con la mia auto. Una volta Giuliano mi disse che saremmo andati con la sua auto e mi diede l’appuntamento sotto casa sua alle 16.30 del pomeriggio. Gli raccomandai di essere puntuale perché avevamo deciso di andare a cena a Roma in un ristorante vietnamita, l’“Eau vive” dalle parti del Pantheon. Sapevamo che questo ristorante non accettava più nessuno dopo le 21. Alle 16.30 ero da Giuliano. Ricordo che pioveva a dirotto. Bussai al citofono, ma non ebbi alcuna risposta. L’attesa si prolungava e di Giuliano non si avevano notizie. Non erano ancora in uso i telefoni cellulari, pertanto non c’era modo di contattare né lui né altri della sua famiglia. Verso le 17.30, quando io, oramai agitatissimo, stavo pensando a come strangolarlo quando l’avrei incontrato, Giuliano arrivò tutto calmo.

“Mario, scusami, ma ho fatto un po’ tardi perché sono andato ad acquistare un nuovo orologio.”

“Un po’ tardi? E’ un’ora che ti aspetto!”

“Ho dovuto attendere che aprissero i negozi.”

“Scusa, Giulià, ma tu proprio oggi ti dovevi andare a comprare l’orologio?”

“Sai, mi sono accorto che l’altro mio orologio non funzionava bene, perciò, visto che dobbiamo andare in America, ho deciso di comprarne uno nuovo e perfettamente funzionante.”

“E tu ‘sta decisione nun ‘a putiv’ piglià almen’ stamattina? Mo facimme tarde pe’ l’“Eau vive”.”

“Nun te preoccupà. Vedrai c’arrivamm’ a tiemp.”

“Va bene. Mo vire ‘e fa ampress’.”

Dopo circa un’altra mezz’ora, finalmente Giuliano scese con la sua valigia, che naturalmente non era pronta e, quindi, aveva dovuto preparare. Verso le 18, finalmente, partimmo per Roma sotto un aquazzone torrenziale. Naturalmente il traffico era caotico, le strade intasate e arrivammo al nostro albergo a Roma verso le dieci di sera. Addio “Eau vive”!”

Andammo in un altro ristorante, cenammo bene e ritornammo in albergo dandoci appuntamento per le sette dell’indomani mattina, per fare colazione insieme e, poi, partire in auto per l’aeroporto di Fiumicino alle 7.30.

Alle sette in punto dell’indomani mattina scesi a fare colazione, ma di Giuliano nemmeno l’ombra. Feci colazione e, visto che alle sette e venti Giuliano ancora non si vedeva, decisi di andare a chiamarlo in camera. Bussai alla porta della sua camera.

“Chi è?”, disse una voce incerta e piena di sonno.

“Sono Mario.”

“Mario? Ma tu si pazz?”

“So’ pazz? Ma tu sai che ora è?”

“E certo! Song’ ‘quatto ‘e notte!”

“Giulià, u’ pazz’ si tu! Ma quale quattro di mattina? Sono le sette e venti?”

“Over?”

“E, over! Ma che caccavella ‘e ‘rilorgio ti si accattat?”

“Ma come? L’orologio nuovo? Chill’ è ‘nu Longines!”

“Ma quale Longines. T’hann’ fatte fess, Giulià. Ma che orologio te si accattat’?”

“Mo ca torno ci’aggia dicere ‘o negoziante.”

“Mo cerca ‘e fa ampress, si no perdimm’ l’aereo.”

Come Dio volle, Giuliano si alzò, saltò la colazione e andammo all’aereoporto, fortunatamente giusto in tempo per l’aereo.

 

Ma la cosa più terribile capitò al ritorno dagli Stati Uniti. Partimmo da New York col volo delle 18.30 di sera per arrivare a Roma alle 8.30 del mattino seguente. Durante il volo tutto andò bene, a parte il fatto che io non dormo mai sugli aerei e, quindi, al mattino mi sentivo un po’ tutto rintronato. Appena l’aereo cominciò la discesa verso Roma Fiumicino mi arrivò la notizia!

“Mario, ho dimenticato le chiavi della macchina a Boston.”

“No, non è possibile! Guarda bene in tutte le tasche.”

“Niente da fare. Ho visto anche nel bagaglio a mano. Speriamo che le abbia in valigia, Ma temo di no.”

“Perché? Ricordi di averle tirate fuori a Boston?”

“Si, e le avevo messe sul comodino insieme alle altre mie cose.”

“Uh, Gesù, dimmi che non è vero! Forse le hai messe nel tuo bagaglio.”

Sfortunatamente Giuliano non aveva messo le chiavi neppure nella sua valigia. Le aveva veramente dimenticate a Boston!

 

“E mo’ come facciamo, Mario?”

“Guarda, Giuliano. E’ pure domenica e i meccanici dell’aeroporto sono chiusi. Andiamo a prendere il treno. Poi con calma, magari domani, ritorni a Roma e prendi la macchina con l’altra chiave che hai a casa.”

“No, e chi torna ‘n’ata vota a Roma? Ma come fanno i ladri? Vediamo se riusciamo ad aprire la portiera con un ferrino.”

“Giuliano, ma tu non sei uno scassinatore, come pretendi di aprire la porta?”

“Aspetta un po’ e vedrai che ci riesco.”

Verso le 11 del mattino, Giuliano riuscì veramente ad aprire la portiera. Ora però si poneva il problema dell’avviamento del motore.

“E mo’ come mettiamo in moto?”

“Come fanno i ladri. Mettono in contatto dei fili e il motore va in moto.”

“E quali fili?”

“Quelli del cruscotto. Ma non so aprirlo.”

“Ho capito. Giulià, damme ‘nu cacciavite.”

“Il cacciavite ce l’ho. E ho anche un martello.”

“Col cacciavite ho aperto una parte ma non riesco ad arrivare ai fili.”

“Fammi provare. Forse ci riesco.”

“Ci sei riuscito? No? C’è una sola soluzione, credo.”

“Quale?”

“Dobbiamo rompere il cruscotto con il martello.”

“E va bene, poi lo compro nuovo. Prova un po’, Mario.”

“Ecco fatto. Ho trovato i fili. Sono, però, centinaia. Tu sai quali bisogna mettere in contatto?”

“Io no. Mica sono un elettrauto.”

“E manch’io, Giulià!”

“Vai per tentativi.”

“E ghiamm pe’ tentativi. Ma ‘o ssai ca song’e ddoie del pomeriggio?”

“E va buò. Comm’ hamma fa?”

“Aspetto, Giulià, ce so’ riuscito! A maronn’ ci ha fatto ‘a grazia! Aggi’ mise in moto overamente.”

“Bravo. Ora possiamo partire. Ah, no, un momento. C’è il bloccasterzo.”

“Pure ‘o bloccasterzo? E comme facimme! Famme pruvà. Macchè. E’ tuosto, non si sblocca.”

“Aspetta, Mario. Mo chiedo aiuto a quel camionista.”

“Scusi, ci può aiutare a sbloccare lo sterzo, per favore? Abbiamo avuto una serie di contrarietà e non riusciamo a partire.”

“Non è facile farlo a mano. Ci vuole una barra di ferro. Mi faccia vedere. Forse ho qualcosa nel camion.”

“Ecco fatto. Si è sbloccato abbastanza. Non del tutto. Fate attenzione alle curve.”

“Grazie mille. Ci ha fatto un grosso favore. Arrivederci.”

“Finalmente partiamo. Meglio tardi che mai.”

“Oramai è buio. Dove siamo?”

“A Frosinone. Altre due ore e siamo a casa.”

“Speriamo. Giulià, ma che è quella spia rossa?”

“Non so. Potrebbe essere la spia dell’acqua. Ma è strano, perché questa è una macchina a circuito chiuso.”

“Chest’è ‘na macchina ‘e bubbazz’, Giulià! Famme verè ‘e che si tratta.”

“Fai attenzione all’acqua in ebollizione.”

“Giulià, ca’ ‘nun ce stà manco ‘na goccia d’acqua!”

“Over’?”

“E’, over’”

“E mo comme facimme?”

“Ce stà ‘nu distributore ‘e benzina a due chilometri. Aspetteme cà. Vac’ a verè si trove l’acqua.”…..

“Ecco fatto. Ho messo l’acqua. Sperammo ca stasera turnamm’ ‘a casa.”

Finalmente, verso le otto di sera, arrivammo sotto casa mia. Dopo una notte insonne in aereo, una giornata passata a fare i rapinatori di auto!

“Mario, eccoci arrivati. Senti, quando dobbiamo andare a Francoforte per la Fiera del Libro?”

“Tra una settimana.”

“Da dove partiamo, da Napoli o da Roma? Ti vengo a prendere io”

“Io parto da Napoli sabato pomeriggio. Nun me venì a piglià. Ce vac’ cu ‘a macchina mia. Ci vediamo direttamente a Francoforte lunedì mattina. Statt’ buono!”